La casa dei nostri vecchi

La casa nell’antichità è sempre stata vista non con le comodità come la vediamo noi oggi, ma come una difesa contro briganti e ladri, poi soprattutto come un rifugio, un posto dove dormire e ripararsi quando pioveva. Ciò era imposto dal sistema di lavoro e di vita di questi tempi che costringeva l’uomo a lavorare da sole a sole. Quindi la costruzione di una casa non era accurata, ma dettata dalla praticità  e dal risparmio (miseria).

Si costruiva soprattutto con pietre e pietrame trovato sul luogo scassando il terreno per renderlo coltivabile. Quindi, se vi potevano essere pietre solide e che si potevano squadrare, si trovava anche del ciottolame friabile non resistente per costruire. Ma il montanaro non poteva permettersi questa scelta, non vi era altro materiale resistente che si potesse reperire gratis. Le cave di pietra o erano comunali oppure si trovavano immancabilmente nei terreni dei ricchi.

Quindi al termine di una giornata di lavoro nei campi, ciascuno portava a casa i sassotti i ciottoli scalzati con la “marra” (zappa): nel paniere i più poveri, nei “corbelli” (grossi cesti di vimini cilindrici) e a somma d’asino i più “ricchi”. Poi nelle giornate d’inverno, quando non si poteva “tribolare” nei campi, il contadino si improvvisava muratore e la casa nasceva piano piano, prima una stanza unica e la stalla, poi lateralmente o sopra, se i muri non crollavano, si aggiungevano altri vuoti a seconda dell’accrescersi della famiglia, cosicchè la costruzione durava anche parecchi anni. Facevano le fondazioni poco profonde per non sprecare materiale da costruzione.

La calce per legare la muratura era quasi inesistente. Il Calcare albarese o “pietra morta” da cui si ricava, si trova dovunque nelle nostre montagne e non era difficile scavare una buca di terra e fare una fornace per cuocerla, ma chi lo faceva doveva versare una tassa, che si ripercuoteva su chi comprava la calce.

Quindi si murava a “sabion”, cioè si andava in un castagneto, si cercava una vena di terra argillosa, mista a piccoli ciottoli, cioè  a “sabbione”. Si impastava con acqua, formando una poltiglia che “legasse”, che bloccasse cioè la pietra abbastanza per potergliene sovrapporre altre.

La stabilità dell’insieme era affidata esclusivamente all’equilibrio ed alla speranza che non piovesse contro la casa. Infatti di intonaci esterni non se ne parlava e quelli interni erano fatti di “sabion“, quando eran fatti!

Dei veri artisti erano coloro che sapevano fare il muro “a secco”, “scajado”, cioè sapendo trovare pietrame che combaciasse assieme e bloccandolo con piccole scaglie sempre di pietra battute con la martellina nelle fessure.

Gli spigoli non erano tagliati con la “punta” (scalpello) e al “mazôlo” (il mazzuolo), ma scegliendo nel mucchio le pietre adatte allo scopo. Una variante ancora più economica era la seguente: si costruiva prima un traliccio di “legni” (tronchi) di castagno tagliati a luna buona, comprensivo di pilastri piantati in terra e collegati con travi e da muri di fondazione.

In questi “tralicci” tamponati alla meglio con rami e coperti a lastre potevano almeno alloggiare al coperto uomini e bestie, cominciando con comodo a tamponare con muratura e inserendo in essa i pilastri e le travi correnti che fungevano da cordolo d’unione per la precaria muratura.

Le case dei ricchi erano torrette costruite per difendervi persone e cose dalle scorrerie dei briganti. Molte case che si vedono tuttora risultano dalla costruzione affiancata di più torrette, che avveniva man mano che la famiglia acquisiva potenza economica. Da principio le stanze erano ampie quanto l’edificio e collegate con quelle superiori con rozze scale messe di fianco o al centro e in esse si svolgeva l’attività della famiglia nella più completa promiscuità.

Quando un certo desiderio di comodità faceva sorgere la necessita di dividere gli stanzoni in più ambienti, il sistema più usato per costruire i muri divisori (a Badi si dicono “paradère”) era il seguente: nel castagneto si tagliavano dalla ceppaia i polloni, rami nuovi, lunghi e lisci, a primavera inoltrata quando erano ben formati, ma a ancora flessibili. Con questi si creava un intreccio attorno a rami più grossi e verticali fino a raggiungere l’altezza del “balco” (soffitto); si creava così “lo stoliccio” (da stollo = palo).

Su questa intelaiatura si gettava un intonaco di “sabion” o di malta di calce. Spesso la miseria e l’abbondanza di sterco di vacca (“buina”) potrava ad usarlo a ‘mo di calce per ricoprire lo “stoliccio“.

Fonte: La Lavorazione della Pietra Nella Valle Del Reno (a cura di Rosella Ghedini, Paolo Minarelli e Renzo Zagnoni)

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Fornisci il tuo contributo!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *